«Il tempo è anche un silenziatore: la lontananza attutisce i rumori e si offre a noi come deposito di suggestioni e fantasie, private quindi degli umori, dei suoni e delle fisionomie dei protagonisti. È un teatro vuoto quello che si presenta ai nostri occhi, nella migliore delle ipotesi una recita del dramma. Scacco, dunque, finale dell’immagine. Bianca: intorno al bianco».
Queste sono le parole che dalla parete accolgono il visitatore che ha percorso le rampe che portano al quarto piano del Museo del 900 di Milano; lo spazio espositivo è quello della sala Lanterna e della sala Archivi, lo scritto di Franco Guerzoni introduce alla mostra delle sue opere: “L’immagine sottratta”, aperta fino al 14 Febbraio 2021. La mostra intende presentare il suo percorso artistico, rovistando nel passato e affiancando i diversi media utilizzati in modalità sincronica, creando così un’archeologia del sapere creativo in cui gli oggetti e la materia diventano elementi semantici, utili a definire le modalità e le regole delle sue azioni.
«L’esposizione dovrà essere intima come intimo è lo spazio che la riceve al Museo del Novecento… Non inseguirà l’ambizione di narrare una biografia, quanto piuttosto accettare la frammentarietà di alcune stagioni di ricerca che qui cercano di incontrarsi in una distanza temporale significativa»: è lo stesso autore, coadiuvato dalla curatrice Martina Corgnati, a fornire le coordinate del percorso espositivo. Uno spazio bianco dal quale stanno per scomparire o appaiono per risonanza oggetti e superfici, spazio della memoria che viaggia parallelo al senso delle opere, esposte eliminando la temporalità in un divenire di strati e frammenti.
La poetica di Franco Guerzoni, ricordata nel libro “Nessun Luogo. Da nessuna parte. Viaggi randagi con Luigi Ghirri” esposto nella teca nella sala Archivi e dalle fotografie appese, nasce dall’esperienza condivisa con Luigi Ghirri nei primi anni 70, nelle discussioni ma soprattutto dalle scampagnate in Fiat 500 attraverso la bassa padana tra Modena e Mantova. Indagini visive alla ricerca di spazi contadini, aree abbandonate, palazzi sventrati dal tempo. «Abbiamo fotografato una quantità incredibile di case, di muri, di rovine soprattutto, le immagini sono apparentemente molto simili, ma non fotografavamo mai due volte la stessa cosa. Il punto è che tutte quelle pietre, quelle macerie, quelle case demolite noi le vedevamo come su un libro di archeologia. Come dire? Erano cose dell’altro ieri, ma noi, reinventandone l’aura drammatica, tragica, riuscivamo a trovarvi la Grecia antica».
Fu la scoperta dei luoghi attraverso le tracce del passato sovraimpresse dal tempo, un’archeologia che si trasforma in antropologia, laddove ognuno andava cercando la propria idea di memoria: «Luigi voleva le «foto-foto», a me invece non interessava che fossero belle, dovevano essere immagini da usare come supporto e su cui, con una chimica molto ingenua, facevo crescere le muffe di salnitro che davano alla foto una profondità, un’esperienza, una nuova scrittura», racconta Guerzoni. L’immagine come supporto, primo livello di superficie, materia da lavorare e contaminare, proprio come il tempo che agisce consumando gli oggetti abbandonati per essere ritrovati. Sulle pareti appaiono fotografie di palazzi sventrati e crollati inserite in teche, coperte da pigmenti e arrichite con gesso: sono gli “Affreschi”. «Scavi e sventramenti fanno riaffiorare tracce di affreschi che rimangono per un po’ sospesi nello spazio e nel tempo diventati uno l’allegoria dell’altro…. La fotografia serve a Guerzoni per bloccare questa situazione di effimero equilibrio e sottrarla al flusso inesorabile della necessità, ma la parte più notevole della sua operazione consiste nel recupero, attraverso l’immagine così ottenuta, ombra del reale, di una nuova possibilità d’azione tesa a ricostituire il reale. L’intervento che compie sulla fotografia non è pittura, ma archeologia della pittura, è memoria del fare pittorico diventata a sua volta emblema della memoria del fare» scrive Franco Vaccari nella pubblicazione del 1973 esposta nella teca. Agli “Affreschi” seguiranno dal ’73 le “Archeologie” seguite dalle “Antropologie”, come sviluppo dell’interesse dell’artista per l’idea di stratificazione culturale e il senso di antico come perdita.
Non è facile orientarsi tra le stanze dell’esposizione alla ricerca di una cronologia del percorso artistico: lo spettatore si rende conto di essere in uno spazio sospeso in cui ogni superfice dialoga con l’immagine scomparsa della superfice accanto, nel rivelare un qui e ora da indagare anche con la parete bianca del museo che accoglie le opere appese. Il medium fotografico appare, ma forse scompare è il termine corretto, nei “Paesaggi in polvere”: piccoli riquadri, rispetto alle grandi lastre di superfici di gesso appese, ancora piu preziosi, inediti e relativamente recenti (è del 2006 la loro prima esposizione) in cui cornici, carte, gesso e pigmenti che si stratificano e dialogano rendono opache le superfici in cui affiorano. Scrive l’antropologo Marc Augè: «La fotografia, oggi, è alla portata di tutti. Si conserva e si riproduce facilmente. Ma le foto antiche erano più fragili e vi si leggeva direttamente l’azione distruttrice del tempo nella progressiva sparizione dell’immagine. Esse avevano in qualche modo una vocazione materiale a diventare delle rovine e così a trasformare le testimonianze in segni, a passare dalla storia al tempo. Se Franco Guerzoni ha fatto spesso ricorso a fotografie antiche e anche a immagini di dagherrotipo, è con ogni evidenza perché esse gli fornivano in una doppia forma (la realtà rappresentata e il supporto utilizzato) la sua prima materia di base: il tempo».
Ed proprio quando l’immagine scompare per lasciare posto al frammento in grandi lastre di superfici gessosse ricche di pigmenti e di graffi che diventa potente la visione di Guerzoni. Sono le “Archeologie senza restauro” e il “Museo ideale” che chiedono allo spettatore di fermarsi, come se il flusso certo dei contorni e delle funzioni, dell’identità e del riconoscimento sociale creasse un corto circuito di senso. Il tempo ha preso il sopravvento sulla visione lasciando superfici e dentro le superfici livelli stratificati di presenze artistiche, manufatti concettuali che scrivono: e sono i segni generati da una pratica che si articola su una serie di gesti e azioni semplici – grattare, trovare, scavare, stampare, sottrarre, aggiungere, asciugare, sabbiare, strappare – che talvolta escludono l’uso del pennello e invitano l’artista a occupare una posizione apparentemente indefinita, la superfice come profondità. Il frammento diventa tridimensionale nelle opere del “Museo ideale”: vengono incastonati come ulteriore livello di stratificazione oggetti come vecchie tazze spaccatte, filo di ferro che lacera la superfice uscendone come un ramo inferocito dal bagliore del gesso dipinto che si trasforma in bassorilievo fino a prendere le forme della scultura.
«Ci sono molti frammenti di tazze, uno degli oggetti che mi commuove di più. Qualche sera fa a Franco VAccari il mio amico filosofo, dicevo proprio che la tazza è il passaggio successivo al prendere l’acqua con la mano. È la rappresentazione del gesto. Ma la mia non è mai una tazza antica e neanche il Graal. È qualcosa di vicino alla semplicità del suo essere una piccola invenzione. Costruisco queste cose, poi le guardo tanto e a volte le nascondo, perché non mi rivelano quello che cercavo, poi le riprendo. Uso tante tecniche che sono primordiali, come rompere, spaccare, ricongiungere. Mi interessa anche lo strappo perché mi offre delle possibilità di frammentare, cosa che non potrei fare con la gestione pittorica tradizionale. Inoltre, mi offre delle sorprese alle quali mi affido, piccoli incidenti. Cerco una cosa e me ne viene offerta un’altra, abbandono quello che cercavo oppure porto ciò che cercavo dentro un’altra cosa. È un processo lento», racconta Guerzoni nell’intervista ad ALIAS del Manifesto in occasione della mostra.
È l’idea del falso restauro, l’archeologia intima e contraffatta in cui un coccio, uno sbrego, un cavità della superficie diventano siderali elementi simbolici di uno spazio senza tempo. La sincronia sospesa delle superfici lascia spazio, nella sala degli Archivi, a tre moduli di bacheca orizzontali in cui sono custoditi sottovetro i libri-opera, libri d’artista in edizione unica in cui Guerzoni, cambiando format e usando diversi materiali, riprende il suo percorso artistico: vanno dal “Libro dei sogni” del 1970 al “Museo ideale” del 2014, accompagnati dalla produzione dei libri-catologo che hanno raccontato le sue esposizioni, creando un profilo storico delle fasi creative con interventi di critici amici come Sebastiano Vassalli, Adriano Spatola, Emilio Mattioli, Paolo Fossati, Henry Martin (le immagini che compaiono nei volumi sono spesso collaborazioni fotografiche con Luigi Ghirri e Franco Vaccari).
Nel percorso espositivo una bacheca è riservata a un labirinto di sequenze fotografiche, spesso inedite, che raccontano progetti e aspirazioni risalenti alle sue origini che l’artista chiama “Irrisolti”.
Un vero peccato la presenza della superfice di vetro della bacheca, perché i libri non si possono sfogliare , si può solo immaginarne le pagine.
Conclude l’esibizione un video realizzato appositamente per l’occasione da Eva Marisaldi ed Enrico Serotti, nel quale viene raccontato il percorso artistico dell’autore.
Il Baretto consiglia la visita e vuole fare un regalo allegando al lettore curioso, tra le foto dell’esibizione, uno scatto di Franco Guerzoni trovato in rete e realizzato da Luigi Ghirri.
Buona visione.
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