La scomparsa dell’identità come esaltazione del corpo parlante
Nel passante ferroviario della Stazione Porta Venezia di Milano, in un set provvisorio allestito nei locali espositivi dell’associazione Arte Passante, chiedo a passanti sconosciuti il permesso di fare loro un ritratto con la testa infilata in un sacchetto di plastica. Chiedo loro anche di lasciare dei segni del loro passaggio scrivendo tre parole a loro scelta su un foglio di carta bianco a quadretti. Al termine della performance il sacchetto in cui hanno respirato viene segnato con il loro nome.
La parola “ritratto” deriva dal latino retrahĕre – trascinare fuori, rivelare, esporre; ma cosa rimane di un ritratto quando il volto è negato? Quando nella costruzione della rappresentazione, che sia un quadro o un fotografia, l’autore volontariamente, attraverso degli escamotage narrativi – ad esempio un sacchetto di plastica – disconnette il flusso ordinario dell’informazione? Il progetto nasce da queste considerazioni, cercando delle risposte, ma prima di tutto facendo domande: e la prima domanda non lascia scampo perché si trasforma in gesto. Il primo flusso da gestire è il passare trafelato del soggetto che frettolosamente attraversa il sottopassaggio ferroviario di Porta Venezia: «Posso farti un ritratto con un sacchetto di plastica in testa?». La reazione è di stupore, fastidio ma anche curiosità. È subito chiaro che le istanze della rappresentazione lasciano priorità alla dimensione performativa-relazionale. Non solo il flusso dell’informazione non scorrerà naturalmente con il volto negato, ma anche il flusso dei passanti intercettati verrà turbato da una crepa nel loro percorso, che li porterà nello studio improvvisato con il volto nascosto. Un ritratto, quando il volto è nascosto, porta inevitabilmente l’osservatore a concentrarsi sulla ricerca di informazioni da ciò che appare: vestiti, colori, la posizione delle mani. Ma ciò che è nascosto, il viso, lo sguardo, non è scomparso: sta pensando. Il sacchetto di plastica diventa un elemento dello sguardo negato, modellato dal respiro del soggetto inquadrato.
Prima di coprirsi il volto, prima di diventare invisibile, al soggetto viene chiesto di lasciare una traccia del suo passaggio su un foglio a quadretti con un pennarello nero: sono segni, parole, disegni, caratteri arabi o ideogrammi cinesi che si trasformano a loro volta in immagini; gli viene chiesto di portare questi segni con sé nel momento in cui per pochi secondi sarà isolato dalla realtà esterna visualizzandoli. Si crea pertanto uno spazio di sospensione sensoriale in cui la vista e l’udito limitano allo spazio circoscritto dal sacchetto di plastica la loro estensione. In una sorta di equilibrio psichico ciò che l’osservatore non vede è amplificato all’interno del sacchetto in termini di sensazioni dal soggetto rappresentato. Il progetto è stato pensato principalmente per l’istallazione: le fotografie con il foglio a quadretti segnato non sono visibili, come non è visibile il volto del soggetto, perché il tutto è inserito nello stesso sacchetto usato dal soggetto per nascondere il viso e in cui resta traccia del suo respiro. L’esperienza deve essere ricostruita dallo spettatore, che dovrà scoprirla estraendo dai sacchetti di plastica penzolanti dal soffitto le tracce del passaggio dei passanti sconosciuti. IO non sono l’autore, la firma sul sacchetto del soggetto rappresentato scaccia l’aura creando un sistema circolare di condivisione di intenti che coinvolge anche lo spettatore prima o dopo aver frugato nei sacchetti, tra le sensazioni e i pensieri delle opere nascoste.
Paolo Bianchi
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