1. L’occasione

A inizio di agosto 2018, mentre stavamo partendo per le vacanze un po’ alla spicciolata, a qualcuno del Baretto è tornato in mente un invito fatto da Matteo Balduzzi, curatore del MUFOCO, che suonava tipo così: «Al ritorno faremo un’iniziativa sulle foto delle vacanze. Mi raccomando, fatene tante!». E così abbiamo deciso di fare. Ma con una variazione sul tema: avremmo messo via via tutte le nostre foto delle vacanze su un unico account Instagram, senza alcuna indicazione del luogo e dell’autore. E con un proposito: fare le foto e, nello stesso tempo, cercare di capire cosa fosse ciò che stavamo facendo. Cercare di imparare qualcosa sulle foto delle vacanze e su noi stessi mentre le stavamo scattando. Non troppo sorprendentemente, il gioco è stato divertente e ha prodotto alla fine due cose: la discussione che, sintetizzata, vedete riportata qui sotto, e il video che raccoglie tutte le foto. Ma prima alzate il volume: si parte.


2. Il contesto

Chi non fa le foto delle vacanze? Tutti ne facciamo. Da quando poi abbiamo tutti in tasca una fotocamera connessa col mondo non facciamo altro che far vedere dove siamo e proprio per questo, in qualche modo, anche chi siamo. Ma andiamo per ordine.

In passato le foto delle vacanze riguardavano esclusivamente: i propri cari, i luoghi di permanenza o di visita (quasi tutti con gli orizzonti storti), alcune occasioni vissute o particolarità del luogo… Non era assolutamente importante la fotografia. La fotografia non era il fine; era solo uno strumento, un utensile da utilizzare per registrare un qualcosa che avremmo voluto ricordare. Si trattava, pertanto, di immagini-rievocazione a tutti gli effetti, in quanto stabilivano soprattutto una relazione riflessiva (di me con me stesso, i miei vissuti e la mia storia, personale e familiare). Nel mostrare al me stesso futuro, tipico della foto ricordo familiare, prevale l’attenzione alla riconoscibilità: che vengano bene i visi, i monumenti, che la foto non sia mossa e in futuro non si debba rimpiangere l’imperizia dicendo Accidenti è venuta male e non si vede la faccia di zio Peppino! Una delle caratteristiche della foto ricordo delle vacanze pare quindi essere la totale trasparenza: non conta nulla ciò che si frappone tra me e il soggetto (cioè la foto stessa), conta solo il soggetto e lo scopo per cui lo sto “portando con me”: ricordarmelo in futuro. La foto è una pura finestra trasparente.

I social hanno mutato radicalmente l’identità di queste fotografie. L’intenzionalità di ripresa è completamente diversa: non si tratta più di immagini che hanno come orizzonte il futuro, ma il presente immediato, l’atto istantaneo di condivisione. Elementi che caratterizzano non una relazione riflessiva, ma delle relazioni di scambio vere e proprie con altri, sia noti che sconosciuti. La fotografia cambia: nell’intenzione, nella modalità di ripresa, nell’oggetto. Non più souvenir depositato come riattivatore di ricordi nel nostro futuro, diventa messaggio attivo dell’attimo presente, in grado di raccontare ad altri i luoghi che visitiamo, le cose che vediamo, la nostra capacità di comporre immagini. E soprattutto di raccontare noi stessi, la nostra supposta sensibilità, la nostra capacità di guardare, il nostro gusto estetico. Insomma, la fotografia è anche qui uno degli strumenti di costruzione della nostra maschera sociale, del nostro bisogno di apparire.


3. L’avventura

La foto ricordo delle vacanze sembra meno ingenua di quel che si pensi. Vi sono contenute strutture visive, format che presuppongono pezzi di ideologia: un’idea di natura, di paesaggio, di luogo ameno, di storia e cultura, di famiglia, di dovere sociale… Cosa accade? Qualcosa ci colpisce al primo minuto della presenza in un posto: tipicamente è la bella veduta, il pittoresco, l’inconsueto, il noto, il bizzarro, il carino, il suggestivo e così via. Perché ci colpisce? Ci colpisce perché lo “riconosciamo”. E dato che lo riconosciamo, ci fa rispondere “sì” in automatico, ci fa salivare come il cane di Pavlov. La foto è un automatico assenso a un riconoscimento. In sostanza vediamo ciò che conosciamo già: il viaggio turistico è in larga parte una conferma a posteriori dell’assenso sociale riguardo al viaggio stesso, ai suoi luoghi e soprattutto alle descrizioni e recensioni, al numero di stelle su Tripadvisor che quei luoghi hanno riscosso. È la riproduzione di altre riproduzioni. Siamo immersi nel già visto e rispondiamo cercando un nostro posto, una collocazione.

Questo elemento di consapevolezza è emerso spesso quando, alla fine dell’esperimento, ne abbiamo discusso assieme. Ecco qualche esempio, rigorosamente senza autore come senza autore sono le fotografie.

«Ho affrontato il compito delle vacanze con la leggerezza e l’improvvisazione tipica delle mie vacanze. Non pensavo alle foto mentre fotografavo per il flusso Instagram. Reagivo al dettaglio, alla situazione, al moto di spirito. Alla base del genere “foto delle vacanze” io ho saldamente radicato un sentimento di nostalgia. Le foto delle vacanze sono quelle che fa mio papà in spiaggia ai suoi figlioletti in sella a un gigantesco leone di peluche a Gatteo Mare nel 1973; le foto delle vacanze sono quelle con l’autoscatto che facevo coi miei compagni d’avventura durante l’inter-rail dove risultiamo come quattro minuscole figure con il Tower bridge sullo sfondo. Le foto delle vacanze non sono mai belle, altrimenti sarebbero solo foto belle. Le foto delle vacanze sono una delle più alte e democratiche forme d’arte a disposizione dell’umanità».

«La mia esperienza è stata quella di un racconto che volevo condividere. Motivo per cui ho stampato le foto quasi subito con l’intenzione di crearmi un album delle vacanze estive di quest’anno. Il viaggio era programmato solo sommariamente e l’ho vissuto con stupore per la maggior parte del tempo; a volte ero addirittura incredula. In molti momenti ho assecondato la mia amica e mi son ritrovata in situazioni che non avrei potuto immaginare. Fotografare è stato per me come scrivere un diario di viaggio».

La faccenda non si è tuttavia svolta senza crisi, difficoltà e sviluppi. Ecco come sono emersi, nelle riflessioni di alcuni partecipanti.

«All’inizio la mia idea era di essere il più possibile leggero, cercando un approccio spontaneo ai soggetti che incontravo e alle mie reazioni alla loro vista, nell’idea che questo fosse in effetti il modus operandi della “foto delle vacanze”. Riguardando però le foto, già dopo i primi giorni, mi sono reso conto che tutto erano tranne che spontanee. Fotografare in base a ciò che ti colpisce d’istinto di un posto nuovo significa in realtà attenersi a cliché e format piuttosto codificati. E non solo queste reazioni mi sembravano molto meno spontanee, molto più automatiche: mi sono anche reso conto di non essere solo. Negli stessi posti tutti facevano le stesse foto “spontanee”».

«Le mie foto delle vacanze sono un cliché unico: la foto cartolina, il gatto, il cibo. Il mio approccio alle foto delle vacanze è stato proprio di mostrare le foto di cui di solito mi vergogno giudicandole banali, quelle che al massimo mando a parenti o amici per motivi personali: la bella veduta, il bel gatto visto per strada che mando a mia figlia… Mi sono anche domandata, mentre lo facevo, quale fosse il criterio con cui giudico buona o cattiva un’immagine. Io faccio sempre molta fatica a scegliere tra le mie foto e notavo come foto che mi piacevano anni fa ora sono entrate nella categoria “foto che mi vergogno fare e a mostrare”. Ma quindi perché giudico buone alcune e banali altre? Da dove nasce quella vergogna? È un riflesso delle opinioni altrui con cui interagisco o di una mia evoluzione?».

«In maniera quasi immediata e quindi piuttosto reattiva, dato che il mandato del lavoro era “riflettere sulle foto delle vacanze”, mi sono sforzato di “fare foto non scontate”. Grave errore, mi sono reso conto poi. Se la tua intenzione è quella di fare foto non scontate, cioè di distinguerti dalla massa ed essere non banale, tutto ciò che comunicherai sarà nient’altro che: mi sforzo, e cioè: vorrei essere un fotografo migliore e più figo. Comunichi un vorrei, insomma, uno sforzo, in sé piuttosto patetico. Ed essendo uno sforzo privo di altri contenuti se non se stesso, i contenuti li trovi in un altro tipo di cliché, magari di nicchia invece che di massa: il periferico, il marginale e così via, intesi come soggetti di foto ritenute più fighe e “importanti” e “non banali”. Detto altrimenti, mi sono messo a fare imitazioni di atmosfere di foto di autori famosi. Citazioni che nascondevano a se stesse la propria fonte. Solo a questo punto mi sono reso conto che potevo provare a usare la foto di vacanza per uno scopo diverso: ad esempio per raccontare meglio il luogo, o certe riflessioni che mi suscitava, o per rivolgerla verso il mio stesso desiderio di mostrare, per osservarlo meglio».


4. Il bottino

Facciamo una sintesi. Quella turistica è una fotografia referenziale (c’era questo), di memoria (c’ero io e anche tu), di testimonianza (posso provarlo: ecco la foto) e di relazione (lo mostro e condivido, all’istante). Nel contempo è una fotografia attraverso cui si ama mostrare la propria sensibilità e ottenere consenso e ammirazione – o accettazione – su di essa (fotografo ciò che mi colpisce, testimoniando quindi la mia capacità emotiva/espressiva e la mia padronanza dei valori formali ed estetici). In quanto tale, è sottoposta al paradosso e alla frustrazione tipici della società di massa di cui la stessa fotocamera è un effetto (e una causa). Da una parte è mossa dall’imperativo inderogabile ed essenziale dell’individualità, della spontaneità, dell’unicità irripetibile dell’individuo e della sua esperienza. Dall’altra tale aspirazione è evidentemente frustrata in quanto esiste solo nella massa di chi contemporaneamente condivide la stessa aspirazione nello stesso momento rispetto alla stessa esperienza. E una cosa non può darsi senza l’altra.

Possiamo dirla così: la gente fa di tutto per distinguersi dagli altri, cioè dalla gente. Ma volersi distinguere dagli altri è ciò che in definitiva accomuna tutti, è insomma ciò che definisce l’esser gente. Quindi più la gente prova a distinguersi dalla gente, più lo diventa. Un paradosso mostrato con sarcasmo dalle foto di Martin Parr (Small World Greece o The Leaning Tower of Pisa; ma forse quasi tutta la sua opera) o con una certa angoscia da Andreas Gursky (Tote Hosen).

Ma il sarcasmo, così come l’idea di essere superiori ai cliché, non è una strada così interessante, alla fine. E non è così superiore come crede di essere.
Più interessante è usare la fotografia turistica in un modo diverso: tematizzando l’approccio stesso con cui si guarda e si desidera registrare il visto. Si può provare cioè a osservare il proprio approccio e questo tentativo può aprire vasti territori di ricerca sia riguardo alla natura degli oggetti che si è in grado di vedere, sia al proprio desiderio di vedere e mostrare, sia alla natura dell’oggetto/foto che va producendo.

È importante cioè ragionare su “ciò che vogliamo far vedere del nostro mondo”, perché è ciò che vorremmo che gli altri vedano (e quindi pensino) di noi. Osservare da vicino il rito estivo delle foto delle vacanze è un buon esercizio per ragionare sui propri cliché visivi e ideologici inconsapevoli. E non si tratta, come detto, di ritenersi superiori o estranei ai cliché, di abolirli o di sforzarsi di evitarli. Ma di esplorarli, di andare a fondo, di scoprire cosa succede osservandosi guardare, e cosa accade dopo quel primo minuto di permanenza in un posto, o dopo un tempo indefinito, cosa si inizia a vedere meglio e da cosa, di sé, ci si distanzia: conoscere i cliché di cui siamo fatti, il proprio modo di rispondere automaticamente alla visione, diventa così un modo per conoscersi, per diventare consapevoli delle strutture del proprio sguardo. La foto ricordo di vacanza è un terreno semplice e che riguarda tutti, che si frequenta in modo poco sorvegliato e per nulla ambizioso, del tutto rilassato: è uno specchio elementare in cui forse è più facile osservarsi.

Uno specchio in cui osservare l’idea che abbiamo di noi e quella che mostriamo agli altri, le nostre tante identità, i nostri frammenti, i punti in cui siamo più penetrati dagli stereotipi e dai condizionamenti esterni, gli sguardi assimilati. A patto di riuscire a prendere le distanze, per leggere le immagini come si farebbe con le fotografie realizzate da altri. E magari scoprire che, oltre al luogo comune, al cliché logoro, nell’immagine compare anche dell’altro, qualcosa che non avevamo “visto” prima, qualcosa che ci appartiene del tutto.


5. L’apertura

Questo è il senso di mettere tutte insieme le nostre foto delle vacanze. Cosa avviene? Si attua anche qui una forma di condivisione, ma di diverso tipo. La condivisione social è interindividuale. Ognuno tenta di mostrare un aspetto della propria vita e di sé. Una maschera che ci soddisfi, sulla quale scriviamo il nostro nome. Il simulacro della nostra identità. Mettendo insieme foto di persone diverse, comunque le si condivide. Ma tenendo in secondo piano il totem della nostra identità individuale. Forse questo potrebbe essere un metodo efficace per prendere le distanze, per allentare ogni velleità autoriale o espressiva del sé e tentare una lettura disincantata e impietosa da una parte, ma nello stesso tempo mitigata dalla partecipazione a un progetto comune. Nel flusso l’elemento di auto-riconoscimento si stempera, l’esigenza di mostrare un volto pubblico fosse pure intimo si cela nell’anonimato e così forse ci si può permettere di osare di più per “tradire” finalmente un po’ se stessi.

È questo il punto fondamentale. La consapevolezza della condivisione immediata su Instagram, più l’approccio fotoamatoriale ineliminabile hanno fatto delle foto vacanza non una banca della memoria, ma una ricerca meditata e razionale di un qualche messaggio o significato, che non riguarda però il personale rapporto con i propri vissuti e ricordi. Ma si sono “utilizzati” i propri vissuti per un approccio essenzialmente fotografico. La direzione (e funzione) è quasi invertita. Non la fotografia utilizzata per conservare quei vissuti, ma l’utilizzo di quei vissuti per costruire un messaggio fotografico.

Queste non sono tradizionali foto delle vacanze. Non hanno la funzione di conservare nella memoria luoghi e persone, ma di testimoniare uno sguardo che si è avuto in quelle occasioni; uno sguardo legato al presente, però, non come cimelio che si conserva per il futuro. È un carattere collettivo, uno sguardo promiscuo, ciò che rivelano queste fotografie. Che consente di riflettere sul cliché senza uscirne fuori. Non essendo immagini, e dunque “ricordi” legati a un individuo singolo, si è in grado di assumere meglio la necessaria distanza: si riflette su un’attitudine, più che sui contenuti delle immagini, perché da parte nostra non c’è più, in queste immagini, il riconoscimento della nostra storia e dei nostri vissuti. Non è la memoria di uno, ma la riflessione su come, noi tutti, ci siamo posti di fronte alle cose. E su come, volendo, ce ne possiamo distaccare.