A volte ritornano, o forse non se ne sono mai andati: perché come corvi neri, sono presagi luminosi dell’espressione fotografica.
Parliamo di Masahisa Fukase, fotografo giapponese classe 1934: nel 2016 esposto alla Michael Hoppen Gallery di Londra, rivisitato negli incontri di Arles di quest’anno, con altri otto fotografi giapponesi (Issei Suda, Sakiko Nomura, Daisuke Yokota, Daido Moriyama, Masatoshi Naito, Kou Inose, Eikoh Hosoe) nell’Église Sainte-Anne.
Karasu (Ravens), pubblicato per la prima volta nel 1986 dalla casa editrice giapponese Sōkyūsha, viene definito nel 2010 dal British Journal of Photography come migliore photobook del periodo 1986–2009, primo davanti alla Ballad di Nan Goldin.
Masahisa Fukase nasce nel febbraio del 1934 a Bifuka, un piccolo paese nella provincia di Hokkaido. La famiglia gestisce uno studio/negozio fotografico, qui fa i suoi primi passi di formazione iconografica. Nel 1950 si trasferisce a Tokyo per gli studi (Nihon University College of Art’s Photography Department), inizia a sperimentare con la macchina fotografica, lavora presso Nippon Design Center, collabora presso magazine quali Camera Manichi, Asashi Camera e Asahi Journal. La prima pubblicazione si chiama Kill the Pigs del 1961, una serie di foto in bianco nero oscure a volte macabre, riprese nel corso di frequenti visite al macello di Shibaura, Tokyio.
Produzione biografica, quasi compulsiva sulla realtà emotiva che lo circonda: si esprime attraverso due pubblicazioni successive: Yugi del 1971, sulla prima moglie e Yoko nel 1978 sulla seconda moglie (Yoko Wanibe).
«I work and photograph while hoping to stop everything… In that sense, my work may be some kind of revenge drama about living now».
La camera come filtro/schermo tra sé e la realtà circostante, raccontata attraverso le sue muse: ma cosa succede quando questo delicato equilibrio creativo si spezza?
Nel 1976, Yoko, prima collaboratrice e modella poi moglie, lo lascia.
Fukase subisce la perdita elaborando il lutto nell’alcolismo e soffrendo di forti depressioni. Nei mesi successivi inizia a fotografare corvi (ravens) visti alla stazione dei treni, sulla strada di ritorno per Hokkaido con la stessa concentrazione e intensità con la quale raffigurava Yoko.
Continua a fotografare corvi fino al 1982, anno in cui si risposa e “become a raven” egli stesso come scrive nel diario. La raccolta fotografica viene pubblicata nel 1986 con il titolo di Karasu, anche conosciuto come The Solitude of Ravens.
Nel 1992, Fukase cade dalle scale nel suo bar favorito in Giappone, rimane in coma per 20 anni.
Muore nel 2012. Yoko lo visiterà due volte al mese, lui non lo saprà mai.
Perché Ravens colpisce l’immaginario fotografico facendolo salire al primo posto delle classifiche dei migliori libri fotografici (1986 – 2009) del BJF?
Il Baretto non ama le classifiche, vuole riflettere, ma lo specchio è sporco quindi usa le categorie di Roland Barthes: studium e punctum per semplificare. Lo studium dice che la realizzazione tecnica compositiva a livello storico è derivativa: le tre issues di Provoke magazine che datano 1968 – 1969 (“the photographer can capture what cannot be expressed”) scardinano il fotografico reale, verso una narrazione interiore espressionista/esistenzialista. Lezione completamente elaborata e riprodotta nella composizione di “ravens”. L’inconscio esplode, il bianco e nero immagina ombre, volatili come messaggeri, presagi di angoscia volante che non si possono afferrare: solo fare a pezzi, come brandelli di realtà che vanno a costruire i frames.
Ma il punctum prevale, l’istanza emotiva è forte. Le immagini sono materiche, oscure, espressioniste, spesso tratta i negativi sovraesponendoli, cercando il mood piuttosto che la rifinitura tecnica. Fotografa stormi da lontano, trasformando il singolo volatile in figura nera sullo sfondo del cielo grigio invernale. Corvi catturati in volo, a pezzi, sempre ombre nere, appoggiati sui pali del telegrafo, vivi o morti, presenze riprodotte attraverso tracce sulla neve. Non solo: un corpo di donna nudo abbandonata sul letto, un grosso gatto guarda minaccioso, ma sono i corvi l’ossessione, visioni rigide monocrome.
Nella mitologia giapponese i corvi sono creature dirompenti, presagi di tempi oscuri; nelle rappresentazioni di Fukase simboli dell’amore perduto, di insopportabile dolore. Il racconto di una favola tragica e nera: una relazione con Yoko che si consumerà fino alla fine, senza che lui lo sappia (o forse si) durante i vent’anni di coma successivi alla caduta.
Martin Parr e Gerry Badger scrivono: «One climatic image of silhouetted birds in formation, wings outstretched against a grainy sky, metamorphoses into a wire news service image of overheard warplanes – a significant and traumatic image for postwar Japan».
Il libro, fuori catalogo, è stato da poco ristampato da Mack e include un booklet che analizza l’opera nella storia della fotografia: pubblicato con il titolo rivisto di RAVENS. Si ordina qui: https://goo.gl/pLHMgy
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