«Accentuando la materialità della pellicola, per natura più reale dell’immagine che supporta, l’immagine stessa si fa astratta e io sono interessato proprio a questa prospettiva rovesciata».
Daisuke Yokota, 34 anni, artista fotografo giapponese, cosi esprime uno dei suoi tanti approcci al fotografico. Una visita virtuale alla mostra organizzata ad Amsterdam, in occasione della vincita del premio Foam Paul Huf Award 2016 come miglior artista, diventa un’occasione per scoprirne la poetica.
Entrando, il visitatore è proiettato tra enormi stampe appese al soffitto, che alludono alla pratica della camera oscura. Si tratta di gigantografie di rullini esposti senza passare dalla macchina fotografica. Nella stanza successiva un proiettore al centr
o della sala disegna sui muri i lavori che compongono l’archivio dell’artista giapponese, casualmente e senza alcuna selezione: ci vorrebbe una giornata intera per vederli tutti. In Matter/Vomit, l’ultima installazione, la stanza è riempita da cumuli di materiale bruciato.
Dalle stampe ai libri d’artista, dalle installazioni alle collaborazioni, dal colore al bianco e nero: Yokota fonde, nei differenti strati della manipolazione dell’immagine, memoria, tempo, presente, passato.
In Back Yard fotografa, stampa e poi rifotografa e ristampa ogni immagine fino a dieci volte in camera oscura. Scrive: «Questo approccio non riguarda tanto il realismo, è un’immagine che ho nella testa fin da prima, quanto la ricerca nel processo». In un’intervista rilasciata in occasione dell’esposizione di Back Yards nel 2012 dice di ispirarsi alla musica elettronica di Aphex Twin: musica destrutturata, elaborata con delay, reverberi, effetti speciali, smontata e ricomposta. Come la realtà, un’immagine vista e poi ricordata il giorno dopo, quando la notte ci ha lavorato sopra: quello che rimane e che viene visualizzato è una visione confusa, rifatta con la polvere del tempo che la confonde e allo stesso tempo la forma.
In Colour Photographs sperimenta in camera oscura, creando immagini senza l’uso della camera: stende fogli di pellicola di grandi dimensioni che sviluppa con modalità creative, riprocessandoli, prima di scannerizzarli. Il risultato, decisamente astratto, crea delle composizioni colorate, vibranti e psichedeliche.
Il noise è un genere musicale sviluppatosi negli anni 80: tra i suoi esponenti troviamo bands giapponesi seminali quali Merzabow e Boredoms, che definiscono un genere a sé, il Japanoise. Yokota fa riferimento a quelle esperienze quando indica le opere prodotte senza camera, per sottolineare come ciò che viene definito come disturbo (white noise, il rumore statico diffuso su tutto lo spettro di frequenze) diventa in realtà un campo di indagine dell’arte contemporanea e quando applicato all’immagine registra i primordi della percezione: «Ci sono momenti in cui si fotografa mossi dal desiderio di vedere. Quando cerchi di catturare l’immagine ideale sei inevitabilmente preso dall’idea di mostrarla a qualcuno. Quando poi una persona guarda ciò che è stato prodotto, guarda passivamentequello che è stato composto e creato da altri, non osserva liberamente. Invece io voglio creare rappresentazioni in stato disarmato, dove è possibile vedere proattivamente». Il rumore, la distorsione, come nella musica elettronica, diventano strumenti a disposizione dell’artista per creare nuovi flussi armonici e nuove armonie compositive, contribuendo a creare diverse sensibilità nello sguardo dell’osservatore.
Nelle sue opere la poetica di Moriyama, con le sue immagine mosse, fuori fuoco, le inquadrature sghembe, viene ulteriormente sviluppata fino a intaccare la materia stessa del fotografico. L’uso dell’analogico (prevalente ma non esclusivo) permette di spingere questa immersione nella realtà, pensata come flusso di memoria indistinto, fino a usare la materia stessa di cui è composta e su cui è registrata, quindi la pellicola, ma anche intervenendo sul processo di riproduzione, per riportarla allo stato naturale di originaria percezione cerebrale. La cenere, come materia e risultato di decomposizione di stampe, riporta all’origine del processo produttivo, creando una circolarità artistica quando si trasforma e viene riproposta in ready made nello spazio espositivo.
Il Baretto, curioso e affascinato, ricerca quei momenti in cui il fotografico sconfina nell’arte contemporanea, contaminando gli spazi espositivi perché: matter matters!
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